XX giugno, Ferdinandi: “È il giorno in cui la storia ha chiesto conto a Perugia della sua dignità”
Anche quest’anno, 2025, la città di Perugia ha celebrato una delle sue ricorrenze più significative ed identitarie, ossia il XX giugno, festa “Grande”.
Le cerimonie, secondo tradizione, hanno preso avvio nel Borgo Bello, dove sono state deposte corone di alloro presso il monumento ai caduti del XX Giugno 1859, alla lapide che ricorda l’ingresso delle truppe alleate a Perugia nel 1944 presso la fondazione Agraria e, infine, alla lapide in memoria dei patrioti fucilati nel 1944 dai nazi-fascisti presso il poligono di tiro.
Dopo l’accensione della fiamma da parte dei vigili del fuoco sulla sommità del monumento del XX giugno, all’ingresso dei giardini del Frontone, la sindaca Vittoria Ferdinandi ha pronunciato il suo discorso alla presenza delle massime autorità civili e militari della regione e della città.
Presenti, in particolare, oltre alla sindaca Ferdinandi, la presidente della regione Proietti, il vicepresidente Bori, la presidente dell’assemblea legislativa Bistocchi, il presidente della Provincia di Perugia Presciutti, la presidente del Consiglio comunale Ranfa, gli assessori comunali, i consiglieri comunali di maggioranza ed opposizione. Presenti inoltre rappresentanti di associazioni combattentistiche e d’arma e delle associazioni cittadine. Hanno partecipato anche i bambini della scuola XX giugno accompagnati dalle insegnanti, intonando alcuni canti e l’inno d’Italia.
“Ci sono città che ricordano. E città che resistono. Perugia è entrambe”
Oggi, 20 giugno – ha detto la sindaca Vittoria Ferdinandi aprendo il suo discorso – la nostra città si stringe in un momento solenne, in un tempo che non è solo memoria: è identità. È responsabilità. È un’eredità che ci interroga e ci chiama.
Il 20 giugno non è una data qualsiasi nel calendario. Il XX giugno è una fiamma viva che continua brillare per tutti gli uomini e le donne che amano la libertà. È il giorno in cui la storia ha chiesto conto a Perugia della sua dignità. E Perugia ha risposto. Due volte. Con coraggio, con il sangue, con la speranza, con l’ardire di guardare oltre l’oppressore. Mettendo le basi per la costruzione di un’Italia nuova: unita, laica, repubblicana e democratica.
E’ accaduto il 20 giugno del 1859, quando l’Italia stava nascendo.
E’ accaduto ancora, il 20 giugno del 1944, quando dalle miserie del fascismo, bisognava inventare la Repubblica.
Nel 1859, Perugia era una città viva, inquieta, attraversata da idee nuove che arrivavano da ogni parte della penisola.
L’Italia non esisteva ancora, ma già si respirava un senso di appartenenza futura, si parlava di unità, di libertà, di autodeterminazione. La città era ancora sotto il dominio dello Stato Pontificio. La legge era religiosa, il potere autoritario, il dissenso punito.
Ma qualcosa si stava muovendo. C’erano giovani che leggevano Mazzini in segreto. Intellettuali che scrivevano su fogli clandestini. Operai e artigiani che parlavano di nazione e di diritti. Donne che, pur escluse dalla politica, cucivano bandiere, portavano messaggi, curavano i feriti, partecipavano all’azione civile.
E così la città insorse. Fu un moto popolare, coraggioso. I cittadini presero le armi, costruirono barricate, cercarono di liberarsi da un potere che non avevano scelto.
Durò poco. Il Papa inviò le truppe svizzere. La repressione fu brutale. In tre giorni la rivolta fu soffocata nel sangue. Donne e uomini, vecchi e giovani, caddero per aver reclamato la libertà.
Ma quel sangue non fu versato invano. Il 20 giugno 1859 non fu una sconfitta. Fu un atto fondativo. Perugia, con il suo sacrificio, entrò nella storia del Risorgimento come città ribelle, come terra di anticipo. Nel cuore di quell’Italia che stava nascendo Perugia incise un messaggio radicale: che la libertà non può mai convivere con l’oppressione. Che il potere, quando si fa dominio politico, diventa oppressione.
Quel giorno, Perugia ha scritto una delle prime pagine italiane di laicità. Ha scelto di stare dalla parte della modernità, della coscienza individuale, della separazione tra fede e potere. Ha posto le basi per ciò che oggi chiamiamo cittadinanza attiva, non solo obbedienza alla legge, ma impegno civile e giustizia.
Nel 1944, quando le forze partigiane, insieme alla popolazione e agli alleati, liberarono la città dall’occupazione nazifascista fu un giorno atteso, preparato nel silenzio e nella paura, ma anche nella determinazione. Non fu solo una liberazione militare: fu un ritorno alla vita.
Perugia era stata ferita, provata dalla fame, dai rastrellamenti, dai bombardamenti. Ma mai piegata.
Perugia fu, il 20 giugno, quello che noi proviamo ad essere: una rete. Fatta di mani, di voci, di azioni quotidiane: le staffette partigiane, i rifugiati nascosti nelle cantine, i messaggi passati di bocca in bocca, i giovani saliti in montagna, i contadini che condividevano il poco che avevano con chi resisteva. Ogni gesto cuciva appartenenze, tesseva coscienza civile.
L’antifascismo a Perugia non fu una parola astratta, fu un gesto, una scelta concreta. E fu proprio grazie a quella scelta che anche Perugia contribuì, con dignità, alla costruzione dell’Italia repubblicana. Un’Italia che nasceva libera perché aveva saputo resistere.
Due momenti storici, due battaglie distanti nel tempo, ma unite da uno stesso spirito: la difesa della libertà contro l’oppressione. La scelta di non piegarsi, di non obbedire. Quella scelta scolpita nell’artiglio indomito del Grifo che schiaccia la tiara, che veglia solenne, immortale sulle nostre coscienze. Perugia non si piega, Perugia si vuole libera, Perugia ha sempre lottato per la sua libertà, con il suo popolo e per il suo popolo.
Un secolo separa le due battaglie. Eppure sembra possibile leggere in esse uno stesso gesto. Che cosa spinge una città, e con essa un popolo, a ribellarsi, non per il proprio interesse personale, ma per qualcosa di più grande, più universale?
Lo chiamavano spirito civico, Capitini lo chiamava sentimento civile. E ne abbiamo bisogno disperatamente.
Parola bellissima civismo perché mette insieme cittadinanza, civiltà, comunità, responsabilità, diritti, e doveri. Spinge a trascurare una parte del proprio benessere per il bene comune e si sintetizza nella parola “Noi” o meglio “noi, insieme. E ne abbiamo disperatamente bisogno.
L’idea che esista un terreno che non appartiene a una sola parte, ma che è di tutti. Dove ognuno può camminare con la propria storia, il proprio pensiero, la propria fede, o la propria assenza di fede, senza temere di essere escluso, giudicato, punito.
È su questo terreno che si combattono le battaglie più dure, anche oggi. Non servono fucili.
Ogni volta che si tenta di imporre un’idea unica, una morale assoluta, una visione chiusa dell’essere umano, dimentichiamo che la libertà è di tutti. E che quel tutti ne scandisce il senso. La libertà senza l’uguaglianza, senza fraternità, è arbitrio, è privilegio.
Quell’anelito alla libertà di tutti ci ricorda che nessun potere può scegliere al posto delle coscienze e che la fede, qualunque essa sia, è forza quando è scelta. Ma può diventare dominio, quando è imposta.
Ecco perché, anche se la parola “laicità” non veniva pronunciata allora come la pronunciamo oggi, era già scritta nei gesti, nelle scelte, nei volti. Era nel rifiuto del dogma. Era nel desiderio di pluralità. Era nell’urgenza di costruire una comunità che non avesse padroni.
La laicità non è un principio per giuristi. È una condizione di convivenza. È ciò che ci permette di stare insieme senza doverci somigliare.
Ci chiede di ascoltare, di comprendere, di fare spazio, di accogliere. Non è indifferenza. È il suo contrario: è l’arte difficile dell’equilibrio, del rispetto dell’altro nella sua irriducibile diversità.
E questa arte, questa pratica, non si insegna con le leggi soltanto. Si trasmette con l’esempio. Con le scuole che educano alla libertà di pensiero. Con le istituzioni che non cedono alla tentazione di dividere. Con la politica che non cerca l’applauso facile o la politica urlata, ma costruisce pazientemente coesione.
Per questo credo che la laicità, oggi, viva nel lavoro di tante donne e tanti uomini che ogni giorno si alzano e si impegnano per una città aperta, giusta, inclusiva. Vive nei volontari che accolgono chi arriva da lontano. Ed è bello che oggi sia anche la giornata mondiale del rifugiato, dedicata a chi è stato costretto a fuggire da guerre, persecuzioni, crisi climatiche.
E allora ricordare oggi il XX giugno significa opporsi a quella tentazione del muro che sembra farsi sempre più spazio nella nostra società. Significa ricordare che tracciando confini rigidi si identifica anche sempre il nemico da combattere.
Ecco perché oltre a essere gloriosa, per Perugia la data del XX giugno può essere considerata fondativa. Perché nel 1859 Mirabassi, Danzetta, Faina i confini sognavano di aprirli. Volevano superare gli angusti staterelli che affamavano le popolazioni locali e costruirne uno più ampio, che si sarebbe chiamato Italia. La strage si consumò perché Perugia si era posta l’obiettivo di andare al di là dei propri confini, e non l’aveva fatto per conquistare territori bensì per abbracciarli.
il XX giugno è una data fondativa per l’identità di Perugia, perché questa città si riconosce nell’apertura al mondo, nel suo cosmopolitismo intrinseco.
L’identità di Perugia è l’esatto contrario dell’identità brandita come una clava dai nazionalismi beceri di oggi, perché questa è una città che ha inciso nelle ferite della sua storia l’anelito all’abbattimento dei confini.
L’identità di Perugia non segna confini, li supera per abbracciare il mondo. E comunque, a scanso di equivoci, Perugia non ha solo un’identità, ha un’anima. E l’anima è qualcosa di infinitamente più profondo dell’identità.
Care concittadine, cari concittadini, le donne e gli uomini che nel 1859 e nel 1944 scelsero di resistere, non erano eroi astratti, erano persone comuni, come noi, avevano famiglie, paure, sogni. Ma in loro abitava un’idea più grande del proprio destino individuale. In loro viveva un senso civico, quell’agire che vede la città più importante del proprio tornaconto, e che oggi abbiamo il dovere di riscoprire.
Perché oggi, nel 2025, le forme dell’oppressione sono cambiate, ma non sono scomparse.
Viviamo in un tempo in cui la libertà può essere erosa dal populismo, dalle forme nuove e subdole di repressione del dissenso, dall’ignoranza, dalla disinformazione. In cui la giustizia sociale è messa a rischio da nuove povertà, da diseguaglianze profonde, da solitudini crescenti. In cui la pace non è scontata, neanche in Europa.
Ma Perugia è diversa “Se vuoi la pace, prepara la pace.”, diceva il nostro Capitini. Il nostro, ecco noi siamo qui per preparare la pace, per dire che non esiste libertà se Gaza muore e che non saremo liberi fintantoché i nostri governi nazionali non saranno in grado di fermare quel genocidio. Oggi resistere significa essere cittadini attivi. Partecipare. Impegnarsi. Non cedere all’indifferenza. Non credere che il male sia sempre responsabilità di qualcun altro. E soprattutto: non delegare la democrazia.
Perché la democrazia è fragile. Vive solo se qualcuno la esercita. E noi, tutte e tutti insieme, dobbiamo tenerla viva in ogni momento della nostra azione sociale. Non deleghiamola.
Per questo, oggi, nel giorno della memoria più autentica per la nostra città, io voglio ringraziare tutte le cittadine e i cittadini che, ogni giorno, rendono viva la Resistenza, di questi due nostri XX giugno. Chi lavora nelle scuole, chi accoglie, chi fa cultura, chi ascolta, chi cura. Chi si impegna nei quartieri, nei consigli, nelle associazioni, nei luoghi in cui si costruisce la convivenza. Ma anche e soprattutto a chi non si gira dall’altra parte. A Chi sceglie, senza clamore, di restare umano.
L’anelito alla libertà vive ancora oggi negli insegnanti che non si arrendono all’omologazione. Vive in chi difende i diritti civili e lotta per chi ha meno voce, come Laura Santi, e la sua battaglia per la vita. Vive in chi lavora ogni giorno per non lasciare nessuno indietro e per dare a tutti le stesse opportunità, indipendentemente da dove si nasce, da come ci si veste, da cosa si prega o non si prega.
In loro è ancora viva quella resistenza. Una resistenza quotidiana, civile, silenziosa, ma determinata. Una resistenza che non divide, ma unisce. Che non alza muri, ma costruisce ponti.
Questa città ha bisogno di loro. Ha bisogno di tutti voi. Perché il futuro di Perugia non si costruisce solo con i progetti urbanistici, ma con la qualità della sua democrazia. Con la forza del suo tessuto civile. Con la capacità di fare memoria, non solo il 20 giugno, ma ogni giorno.
Concludo tornando all’inizio.
Ci sono città che ricordano. E città che resistono. Perugia è entrambe. Lo è stata nel 1859. Lo è stata nel 1944. E deve continuare ad esserlo oggi. Nel nome di chi ha combattuto. Nel nome della laicità come fondamento di libertà. Nel nome della nostra responsabilità comune.
Che la nostra Perugia di oggi possa essere ogni giorno ribelle, coraggiosa, fiera, caparbia e generosa, come lo fu allora.
Viva il 20 giugno. Viva Perugia. Viva la Repubblica. Viva l’Italia”
Le cerimonie sono proseguite presso il cimitero monumentale con la deposizione di una corona d’alloro presso il monumento ai Caduti. I presenti sono stati poi accompagnati in visita alle tombe dei partigiani e delle altre personalità cittadine ove sono stati deposti omaggi floreali.
La terza tappa delle cerimonie ha toccato, infine, piazza Puletti (di fronte alla sede dell’Università per Stranieri), ove è stata deposta una corona d’alloro in ricordo di tutte le vittime dei genocidi.