25 Aprile: la festa di tutti gli italiani?

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25 Aprile: la festa di tutti gli italiani? Da Savona a Todi la Festa di Liberazione nazionale ha creato più di una polemica. Evento che meriterebbe di essere maggiormente condiviso tra gli italiani

   

Alcune notizie, nell’approssimarsi del 25 aprile, hanno riacceso il dibattito.

Da una parte l’opposizione di qualche mese fa dell’Associazione Nazionale Partigiani Italiani di Savona alla targa commemorativa che il Comune di Noli (SA) vorrebbe apporre per Giuseppina Ghersi, bimba di 13 anni stuprata e barbaramente assassinata nel 1945 perché accusata di collaborazionismo, sembrerebbe da alcuni Partigiani della Brigata Garibaldi,.

Crimine in un primo momento “giustificato” dall’ANPI di Savona con la motivazione che la bambina “era fascista”.

Dichiarazione da cui il Presidente Nazionale dell’ANPI ha preso immediatamente e nettamente le distanze, provocando una rettifica anche dalla Sezione ligure, la quale – pur finalmente condannando il crimine in sé – è rimasta lo stesso contraria alla targa commemorativa.

Recentemente, poi, e balzato alla ribalta nazionale la notizia che il Sindaco di Todi Ruggiano, ha negato il patrocinio comunale alle celebrazioni del 25 aprile dell’ANPI.

La motivazione fornita in un formale comunicato è che «l’Amministrazione Comunale ha inteso predisporre un programma delle celebrazioni, che sia quanto più istituzionale possibile, evitando, quindi, di aderire a programmi e celebrazioni che abbiano un’impostazione di parte».

Ciò ha provocato la durissima reazione dell’ANPI e tutta una serie di polemiche.

Senza entrare nel merito, il problema che pongo è quello dell’assoluto tabù ideologico che una certa sinistra ha fatto della Resistenza e dell’antifascimo, di cui la reazione dell’ANPI e della sinistra in generale – sia nel caso di Savona, che in quello di Todi – è emblematica.

L’Italia repubblicana ha questo granitico ed indiscutibile dogma laico, difeso ad oltranza e più strenuamente dell’Infallibilità del Papa.

Dopo oltre 71 anni di Repubblica, a 73 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ancora non si può discutere sulla Resistenza, il cui simbolo è il 25 aprile.

Non revisionismo, ma semplice rilettura dei fatti storici.

Eppure il dogma/Resistenza è assolutamente intangibile: chiunque parli della Resistenza fuori dall’ortodossia di sinistra, viene appellato – se va bene – come revisionista, se va male come fascista, antidemocratico etc.

Una Repubblica forte, invece, non dovrebbe avere il timore di confrontarsi serenamente con il proprio passato, per quanto terribile sia.

La sinistra, poi, per decenni si è appropriata di questo valore nazionale, autonominandosene custode e proprietaria, quasi avesse il copyright esclusivo sulla Resistenza.

Da che mondo è mondo la storia è scritta dai vincitori e la storiografia “ufficiale” italiana, per lungo tempo, ha disegnato la Resistenza come “guerra di liberazione”.

Ma non fu così.

La lotta, infatti, non fu di un “popolo” intero, ma di una minoranza (movimento Partigiano), la quale senza il fondamentale ausilio degli angloamericani, proprio per il suo scarso numero e mezzi, difficilmente l’avrebbe avuta vinta sui nazifascisti.

Il popolo italiano come aveva più o meno supinamente subito 20 anni di fascismo, assistette – magari partecipe con lo spirito, ma in gran parte inattivo – alla  Resistenza.

Non voglio assolutamente negare che in Italia vi fosse un consenso più che diffuso nei confronti della Resistenza, ma tale consenso non ritengo che fosse di molto più cospicuo di quelli che continuavano a professarsi fascisti.

La maggioranza degli Italiani, infatti, non ebbe affatto un ruolo attivo nella Resistenza.

Dopo l’8 settembre del 1943, gli Italiani – in una Nazione diventata un enorme campo di battaglia – pensavano a salvarsi la vita, a proteggere i propri familiari ed i propri beni, a far quadrare il pranzo con la cena, subendo sulla propria pelle tutti gli orrori del fronte.

E quella minoranza che dopo l’armistizio si schierò attivamente, si divise letteralmente in due: vi furono quelli che “se ne andarono in montagna” dando inizio alla lotta partigiana e quelli che aderirono alla Repubblica Sociale Italiana (Salò).

Oppositori della Resistenza, spalleggiata dagli angloamericani quindi, c’erano altri italiani (spalleggiati dai nazifascisti), italiani che molte volte erano familiari, amici, compagni di scuola o di lavoro dei Partigiani.

Come mirabilmente narrato nel libro – storicamente rigorosissimo – “Il sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa.

Questa situazione, ha tutti i crismi della “guerra civile”.

Ed dopo una guerra civile (Spagna ed USA insegnano) al momento della pacificazione nazionale, non esistono morti di “serie A” o di “serie B”: i morti sono tutti uguali, anche se alcuni morirono per una causa rivelatasi sbagliata.

Va inoltre sottolineato che tanti aderirono alla RSI, non tanto per condivisione degli ideali fascisti, ma prevalentemente per un travisato senso della Patria, in quanto vedevano gli angloamericani come invasori dell’Italia, come l’altra parte vedeva i nazisti.

Tanti, quindi, morirono in buona fede, non per difendere il fascismo, ma ritenendo di aver difeso la Patria dall’invasore angloamericano.

Durante la Resistenza, inoltre, furono commesse tantissime atrocità, ma esse vennero commesse da tutte le parti.

É la guerra in sé ad essere atroce.

Delle atrocità commesse dai nazifascisti c’è ampia storiografia.

Ma altrettanto ampia – ancorché non altrettanto propagandata – storiografia c’è sulle Foibe, ad opera dei partigiani del comunista Tito.

C’è sulle “Marocchinate” ad opera dei Goumiers del C.E.F. francese, mirabilmente, quanto tragicamente descritte nel libro di Alberto Moravia “La Ciociara” da cui Vittorio De Sica trasse un film pluripremiato.

Ed altre atrocità di cui parlo più avanti.

Ma voglio andare oltre.

Non solo la Resistenza fu guerra civile, ma ritengo che in Italia, di guerre civili, ve ne furono ben due.

La prima che noi conosciamo come “Resistenza” terminò nel 1945 con la liberazione dai nazifascisti.

La seconda che durò almeno fino al 1947.

Dopo la Liberazione, infatti, partigiani cattolici e laici obbedirono tutti all’ordine di riconsegna delle armi, rimettendo il governo provvisorio dell’Italia al Comitato di Liberazione Nazionale.

Alcune tra le colonne partigiane comuniste, invece – nonostante il PCI avesse aderito al CLN e ne fosse parte integrante e sostanziale – non restituirono le armi, ritenendo di non aver completato il proprio compito rivoluzionario.

Vi furono, quindi, episodi di violenza nei confronti di altre colonne partigiane di estrazione cattolica o laico-moderata che, invece, si erano disarmate.

Il movimento Partigiano, infatti, era alquanto composito e sostanzialmente diviso in due.

Se fino al 25 aprile il comune denominatore e l’esigenza primaria era la lotta al nazifascismo e tutti combattevano gomito a gomito, lì si fermava ogni comunanza di intenti.

V’erano radicali differenze, infatti, su quella che sarebbe dovuta essere l’Italia da ricostruire, una volta cacciati i nazifascisti.

Per i comunisti l’Italia post-fascista sarebbe dovuta essere una Repubblica Socialista e Democratica, entrando nell’orbita dell’URSS, in barba agli accordi di Yalta che ponevano l’Italia nell’influenza atlantica.

Una volta vinti i nazifascisti, quindi, per conseguire il secondo obiettivo saltarono tutte le alleanze, e gli amici e compagni d’arme di ieri, divennero i nemici di oggi da annientare.

Come successe a Porzûs con la fucilazione dei componenti della Brigata Partigiana Osoppo, comandati da Francesco De Gregori, zio omonimo del noto cantautore – formazione di orientamento cattolico e laico-socialista – da parte di alcuni partigiani della brigata Garibaldi, di orientamento comunista.

In buona sostanza italiani giustiziarono altri italiani con i quali, fino a pochi mesi prima, avevano condiviso la lotta antifascista combattendo fianco a fianco.

Non solo.

In molte zone e città del centro-nord (Milano ad altre aree della Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto, Venezia-Giulia, Emilia Romagna, Toscana ed anche in Umbria) vi furono eccidi, processi sommari, stragi, torture, violenze ed umiliazioni che colpirono indistintamente tanti civili, solo per il sospetto – anche senza prove – di essere stato fascista.

A volte sterminando famiglie intere.

Come successe alla piccola Giuseppina Ghersi ed alla sua famiglia.

Ed i “regolamenti dei conti”, con eccidi di civili nell’Emilia rossa raggiunsero dimensioni tali da far intervenire Palmiro Togliatti personalmente, il quale intimò con autorità e con severità l’alt alle stragi e la riconsegna definitiva delle armi.

Da tutto quanto detto, si può perfettamente capire, perché il 25 aprile faccia tanta fatica a mettere radici nella coscienza di tutti gli italiani e a diventare festa nazionale condivisa, conservando, ancora oggi, una ben definita connotazione di sinistra.

Negli ultimi 70 anni i misfatti di una parte (nazifascista) sono stati costantemente commemorati e ricordati, mentre i misfatti dell’altra parte (partigiani ed angloamericani) sono stati scientificamente rimossi dalla coscienza morale collettiva.

In un’ottica di totale e definitiva pacificazione nazionale (dopo oltre 70 anni sarebbe anche ora…) non sarebbe giusto commemorare insieme tutti, ma proprio tutti i morti?

Non è ora di fare un passo avanti e, celebrando nella stessa maniera tutto quel sangue italiano, insegnare alle nuove generazioni che è la guerra stessa ad essere sbagliata?

Che il vero, assoluto valore è la pace?

Superare, ormai, il dogma che la “meglio gioventù”, sia solo quella di sinistra.

Capire che non esiste una “meglio gioventù”, ma che esiste solo una gioventù, quella italiana.

Gioventù che non va educata all’odio di chi la pensa diversamente, propinando l’idea che sei sei di sinistra, sei “migliore” degli altri, ma educarla alla tolleranza, al civile confronto, alla pace.

Educare i nostri giovani all’idea che “democrazia” è anche dover ascoltare e confrontarsi pacificamente in maniera non violenta con parole che fanno ribollire il sangue, perché contestano tutti i valori alla cui difesa si è dedicata una vita intera.

Come sosteneva Voltaire: “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”.

Fare in modo, quindi, che il 25 aprile diventi, finalmente la festa della pacificazione nazionale condivisa di tutti gli italiani

Ma, soprattutto, la festa di tutti coloro che hanno amato e che amano l’Italia.

Avv. Gian Luca Laurenzi