Il Prof. Bussini: “L’isolamento dell’Umbria aiuta in tempo di epidemie”

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Il Prof. Bussini: “L’isolamento dell’Umbria aiuta in tempo di epidemie”. Il docente, già ordinario di Demografia all’Università di Perugia, ha pubblicato sulla rivista ‘Passaggi Magazine’ un interessante articolo in cui si parla del ruolo avuto dall’isolamento geografico della regione nel contenimento delle epidemie del passato

   

L’Umbria tra le regioni più virtuose in materia di contenimento del Covd-19. I dati degli ultimi giorni mettono in evidenza come la ‘pandemia’ nella nostra regione ha raggiunto livelli piuttosto contenuti, sia in termini di contagio, sia in termini di morti. Una condizione non nuova per l’Umbria che nel corso della sua storia, viste le caratteristiche geo-morfologiche del territorio, ha avuto una certa protezione nel caso delle epidemie a larga diffusione.

A sostenerlo attraverso un interessante articolo, pubblicato sulla rivista ‘Passaggi Magazine’ lo scorso 4 marzo, il Prof. Odoardo Bussini, già ordinario di Demografia all’Università degli Studi di Perugia.

Va subito precisato – scrive il Prof. Bussini – che non è possibile fare confronti fra tipologie epidemiche di diversa natura e per di più verificatesi a intervalli temporali troppo lunghi.

Il riferimento a periodi storici anche assai lontani serve, però, per evidenziare alcune caratteristiche di fondo del territorio considerato e della sua popolazione. La conoscenza di ciò che è accaduto nel passato non protegge certo dall’infezione, ma dalla paura si, e può fornire insegnamenti per il presente.

È opportuno ricordare che non deve destare preoccupazioni la mortalità da Covid-19, in quanto il tasso di letalità (rapporto tra morti e infetti) è estremamente basso, attorno al 3%, assolutamente non comparabile con la peste e il colera ma nemmeno con l’influenza “spagnola” del 1918. Più problematico è l’indice R0, ossia la stima del numero di persone che in media ogni individuo infetto contagia a sua volta (circa 2,5) e soprattutto il fatto che oggi la mobilità, in epoca di globalizzazione, è ai massimi livelli.

Analizzando gli effetti demografici delle crisi di mortalità nei secoli XVII e XVIII per alcune località dello Stato Pontificio, ho scoperto, anni orsono, che il territorio umbro, pur colpito da ripetute crisi di sussistenza sino all’epidemia generalizzata di tifo petecchiale del 1816-17, è risultato immune dalle due grandi ondate di peste del Seicento (1630 e 1656), che provocarono un numero assai rilevante di decessi, risparmiando pochissime zone italiane,

La capacità dell’Umbria di auto protezione dall’esterno potrebbe derivare, almeno in parte, da alcuni suoi tratti distintivi, rappresentati dalle caratteristiche geo-morfologiche del territorio, dalle condizioni climatiche, dalle forme d’insediamento e da una scarsa mobilità. E’ noto che l’isolamento geografico forniva una certa protezione nel caso delle epidemie a larga diffusione.

Il colera in Umbria nel 1855

Mi sono ricordato di ciò allorquando ho esaminato le modalità di diffusione del colera in Umbria nel secolo XIX. Rispetto ad altre realtà italiane, non c’erano informazioni edite sul fenomeno ma si  è potuta rintracciare la documentazione originalepresso l’Archivio di Stato di Perugia e la sezione di Spoleto.

I dati ufficiali derivano dalle registrazioni giornaliere dei casi di epidemia eseguite dalle deputazioni locali di sanità e/o dai bollettini sanitari dei medici condotti. Gli elenchi erano redatti, per lo più, in modo analitico e in ordine progressivo e si aggiungeva spesso un quadro sinottico riassuntivo con le informazioni sull’epidemia avvenuta in quella località.

È opportuno ricordare che nel 1853 il territorio regionale, ancora sotto il dominio dello Stato della Chiesa, fu suddiviso in tre province pontificie. Perugia, con quattro distretti: quello perugino, di Città di Castello, di Foligno e di Todi. La provincia di Spoleto articolata in tre distretti: quello spoletino, di Norcia e di Terni. La provincia di Orvieto con un unico distretto.

Nel 1860, con la costituzione del Regno d’Italia, è istituita la Provincia dell’Umbria con l’aggiunta dell’ex delegazione di Rieti e del distretto di Gubbio, prima appartenente alla provincia di Pesaro-Urbino. Risultano sei circondari: Perugia, Foligno, Spoleto, Terni, Orvieto e Rieti.

Si trattava di una realtà composita con una fragile coesione interna, anche se con elementi di omogeneità derivanti da modelli culturali comuni della sua popolazione, da un’attività economica quasi esclusivamente rivolta all’agricoltura, da un costante isolamento dell’intera area.

I caratteri di marginalità che nel corso dei secoli hanno contraddistinto l’Umbria si manifestano sicuramente per tutto il secolo XIX, in cui l’isolamento della regione, che si era determinato in funzione della politica pontificia e delle caratteristiche della sua economia, continua per molti decenni anche dopo l’Unità.

Quanto ai sistemi insediativi, la maggior parte dell’Umbria (in misura minore l’area regionale verso sud-est) è caratterizzata – per la presenza della mezzadria – da insediamenti sparsi sul territorio. Al primo censimento unitario del 1861, le città con più di 6.000 abitanti sono solo i capoluoghi dei circondari e il resto della componente urbana vive in cittadine di modeste dimensioni. Circa il 60% della popolazione è insediata nelle campagne. Si evidenzia un regime a bassa pressione demografica.

L’ondata epidemica degli anni 1854-55 arrivò, come la prima del 1837, dalla Francia meridionale colpendo le regioni nordoccidentali e quelle meridionali e nell’anno seguente la sua diffusione fu generalizzata. Sembra che il colera, penetrato via mare nel Regno di Napoli nel 1854, si fosse successivamente spostato a Loreto in occasione di una fiera e da lì si estese ad altre località delle Marche. Dopo una sospensione di alcuni mesi, tra la fine di giugno e i primi di luglio del 1855 si propagò anche in Umbria, arrivando nel folignate e si diffuse poi gradualmente in gran parte della Valle umbra; all’inizio di luglio, contemporaneamente, il morbo interessò anche il territorio posto a nord della regione, in particolare la zona di Città di Castello al confine tosco-romagnolo.

Alle prime avvisaglie del colera, si rafforzò la vigilanza e si presero in quasi tutte le località nuovi provvedimenti restrittivi. Il municipio di Perugia, con lettera del 17 luglio 1855, raccomandò attente ispezioni per verificare «la qualità della frutta e degli erbaggi», ordinò di intensificare le visite ai forni e agli spacci di pane, impose il divieto di introduzione e vendita in città di funghi. Il delegato apostolico della provincia sospese alcune fiere che si tenevano nel territorio, tra cui quella di Assisi-S. Maria degli Angeli prevista dal 29 luglio al 2 agosto.

Anche in Umbria, come nel resto d’Italia, le misure contagioniste (cordoni sanitari, quarantene, lazzaretti) si accompagnarono a quelle «epidemiste» per il risanamento dell’ambiente. I medici, non avendo molte armi a disposizione – vista l’inefficacia delle terapie esistenti all’epoca – si prodigavano a consigliare rigide precauzioni igieniche che potevano essere utili a limitare il contagio.

Questi gli esiti dell’epidemia sul territorio. L’intera provincia di Orvieto, circa 29.000 abitanti, rimase esclusa dal contagio.

Nella provincia pontificia di Perugia,rispetto a una popolazione di 234.533 unità al Censimento pontificio del 1853, quella interessata dal colera è all’incirca la metà. Gli individui colpiti dal morbo sono poco più di 2.500 e i decessi circa 1.150, con una letalità del 46%; considerando la popolazione dei comuni in cui si è verificata l’epidemia, la morbosità riguarda 22 persone ogni 1000 e la mortalità circa il 10‰. La diffusione della malattia non è stata omogenea: il territorio tuderte è stato totalmente risparmiato dall’epidemia,così come tutto il comune di Marsciano.

Anche il distretto di Perugia ne è marginalmente toccato. In città, dove risiedevano circa il 44% degli abitanti del comune, avvennero meno di 80 decessi nei mesi di settembre e ottobre, con una morbosità pari all’8,3‰ e una mortalità del 4,3. Il resto del territorio del Governo perugino (il contado, e i comuni limitrofi di Corciano, Deruta, Torgiano), con una popolazione di oltre 50.000 unità, restò esente. L’area che gravitava intorno al Lago Trasimeno rimase pressoché immune. Di tutta la popolazione del distretto di Perugia (106.536) fu perciò circa il 20% quella in qualche modo coinvolta.

Passando al distretto di Città di Castello (44.012 abitanti), la situazione varia in termini di popolazione interessata, oltre l’80% del totale. L’intensità dell’epidemia è un po’ più elevata rispetto al distretto perugino.

Sicuramente il distretto di Foligno fu quello maggiormente interessato dall’epidemia, poiché tutta la popolazione (oltre 56.000 abitanti) ne fu coinvolta. Il territorio considerato comprende la Valle umbra nord (Assisi e Spello) e la Valle Umbra sud toccando Foligno e le località limitrofe. Tutti questi comuni si trovavano lungo la direttrice che da Roma, attraverso la Flaminia, portava in Umbria e poi proseguiva per le Marche passando per Nocera e Gualdo. In tutta l’area, complessivamente, si registrò la più elevata morbosità (circa il 33‰) e mortalità, di poco inferiore al 15‰. Nel comune capoluogo il colera ebbe una durata di oltre quattro mesi, colpendo poco meno di 1.000 individui, con una morbosità di oltre il 50‰. L’altra zona particolarmente esposta al contagio fu quella a nord di Foligno, in direzione delle Marche: a parte Sigillo(dove si registrarono i valori massimi), la morbosità e la mortalità furono molto intense a Gualdo Tadino e a Fossato. Nell’insieme, però, l’intero territorio folignate, pur essendo chiaramente il più colpito, registrò conseguenze negative assai inferiori delle aree limitrofe regionali.

Resta da analizzare la provincia pontificia di Spoleto, per la quale si sono incontrate maggiori difficoltà nel reperimento dei dati. Notizie indirette davano per certo che anche questo territorio fosse stato investito dal colera.Purtroppo, avendo trovato solo parzialmente la documentazione originale, si è dovuto procedere con delle stime.

La situazione complessiva del territorio regionale, pur risultante da dati incompleti, è la seguente. Secondo il censimento pontificio del 1853, la popolazione delle province di Perugia, Spoleto e Orvieto contava poco meno di 400.000 abitanti. Di questi, circa la metà – i residenti nei comuni contagiati – furono potenzialmente coinvolti dall’epidemia di colera del 1855, che colpì dai 3.600 ai 4.000 individui e provocò circa 1.700-1.800 morti, con una letalità tipica di questa malattia.

Leragioni della resilienza in Umbria 

Ricordando quanto detto circa l’immunità dalla peste del Seicento, va ribadito che l’isolamento geografico forniva una certa protezione nel caso di un’epidemia e fungeva da fattore di rallentamento della diffusione del colera in un’epoca in cui la non conoscenza dell’agente patogeno e delle modalità di trasmissione rendevano quasi inarrestabile il dilagare del contagio.

Ancora per quasi tutto l’Ottocento l’Umbria continua a presentare gli storici connotati di marginalità e isolamento per via della sua economia chiusa ed è quindi poco esposta a flussi di forestieri. In presenza di ridottissimi spostamenti, diminuiva di molto la probabilità che giungessero da altri luoghi infetti portatori della malattia in grado di diffondere il contagio. Non è un caso che nel 1855 le località che subiscono conseguenze maggiori (Spoleto, Foligno, GualdoTadino e Sigillo) sono tutte situate lungo l’asse stradale della Flaminia che da Roma attraversava l’Umbria per proseguire nelle Marche. Il fatto che risulti interessata una zona più isolata come Norcia si potrebbe spiegare con la presenza di vivaci flussi di migrazioni stagionali ad opera dei norcini in direzione di Roma.

E’ emerso chiaramente che il colera colpiva maggiormente le grandi città, caratterizzate da un’alta densità abitativa, da un affollamento delle abitazioni, da problemi per i rifornimenti idrici e per lo smaltimento dei rifiuti. Sappiamo invece che il 60% della popolazione umbra era insediata nelle campagne (case sparse e casali) e che la componente urbana viveva in piccoli centri a bassa densità insediativa e senza problemi di sovraffollamento.

Quanto alla questione igienico-sanitaria, si è già detto delle numerose misure messe in atto dalla pubblica amministrazione nel settore della pubblica igiene, della pulizia delle strade, dello smaltimento dei rifiuti, della costruzione e manutenzione di fognature. Evidentemente, almeno alcuni di tali provvedimenti furono efficaci, specie a Perugia, soprattutto perché tempestivi e condotti con una buona capacità organizzativa.

Sappiamo che l’acqua contaminata era il principale agente della propagazione della malattia nelle città e occorreva, quindi, isolare le acque reflue da quelle potabili e ciò avvennein gran parte d’Italia con molta lentezza per via delle situazioni territoriali diversificate.Non si hanno notizie diffuse per i centri urbani dell’Umbria e quelle che si riferiscono al capoluogo sono successive alla crisi principale. Emerge, tuttavia, che a Perugia l’acqua potabile, pur non di buonissima qualità, era sufficiente per quantità ai bisogni della popolazione e che la maggior parte proveniva da pozzi o cisterne, abbastanza ben protetti dai pericoli di inquinamento derivanti dalle acque luride e dai liquami