L’aterosclerosi quale causa prima della arteriopatia periferica. Aumenta proporzionalmente con l’età, con un rapporto uomo/donna che tende all’unità
L’aterosclerosi rappresenta la causa prima della arteriopatia periferica. Le più comuni manifestazioni cliniche della arteriopatia periferica sono il dolore alla deambulazione, definito claudicatio intermittens, ed il dolore a riposo, caratteristico della ischemia critica degli arti.
La claudicatio intermittens si verifica quando la richiesta di ossigeno del muscolo scheletrico supera l’apporto di sangue ed è provocata dall’attivazione di recettori dolorifici stimolati dall’accumulo di lattato ed altri metaboliti. Quando l’afflusso di sangue non è in grado di soddisfare le richieste metaboliche del muscolo a riposo, si manifesta il dolore tipico della ischemia critica.
La claudicatio intermittens degli arti inferiori è una affezione relativamente frequente, soprattutto nella fascia di età più avanzata.
Si stima che il 12% della popolazione adulta degli USA, circa 8-10 milioni di persone, sia affetta da una arteriopatia periferica nella propria vita.
La prevalenza della arteriopatia periferica aumenta proporzionalmente con l’età: può essere valutata attorno al 2,5% tra i 40 ed i 59 anni, al 8,3% tra i 60 ed i 69 anni ed al 18,8% tra i 70 ed i 79 anni, con un rapporto uomo/donna che tende all’unità nell’età avanzata.
La malattia nella maggior parte dei casi ha una evoluzione relativamente benigna: a cinque anni dalla diagnosi, infatti, circa metà dei casi rimangono stazionari o migliorano, ma purtroppo ancor oggi un quarto dei pazienti va incontro a gangrena o amputazione. Si ha cioè il passaggio da una condizione di “ischemia relativa” ad una di “ischemia critica”, dovuta in genere all’insufficienza dei circoli collaterali ed alla compromissione funzionale del microcircolo.
La più importante implicazione della arteriopatia periferica in termini di morbilità e mortalità, è che la presenza e l’entità di questa patologia rappresenta un marker del coinvolgimento, da parte del processo aterosclerotico, anche di altri territori vascolari. Nei pazienti con arteriopatia periferica, la prevalenza di malattia delle arterie coronarie varia dal 20% al 60% quando la diagnosi è basata sulla storia clinica, sull’esame fisico o sui segni elettrocardiografici, ma arriva al 90% nei pazienti sottoposti a coronarografia. Questo sottolinea il fatto che arteriopatia periferica, arteriopatia coronarica e stroke sono tutte inevitabili manifestazioni dello stesso processo fisiopatologico: l’aterosclerosi.
La frequente coesistenza di arteriopatia periferica e di malattia dei distretti coronarico e carotideo è stata dettagliatamente documentata. La storia naturale della arteriopatia periferica deve quindi essere considerata in una duplice chiave di lettura, con attenzione rivolta sia alla progressione di malattia a livello regionale degli arti inferiori, sia soprattutto alle manifestazioni di aterosclerosi sistemica. Infatti dai dati disponibili in letteratura emerge che nei pazienti con claudicatio intermittens il rischio di amputazione è oscurato dal rischio di eventi cardiovascolari maggiori. La perdita dell’arto è un evento piuttosto raro nei pazienti con claudicatio intermittens, con una probabilità di amputazione maggiore a 5 anni del 2%; questa evenienza è più comune nei pazienti con ischemia critica (12% a 3 mesi). La prognosi a lungo termine dei pazienti con arteriopatia periferica deve essere invece considerata nel contesto della coesistente malattia aterosclerotica generalizzata poiché in questi pazienti, anche se asintomatici, la sopravvivenza a lungo termine è fortemente ridotta in conseguenza delle complicanze aterosclerotiche nei letti coronarico e cerebrovascolare. Il tasso di mortalità risulta drammaticamente più alto nei pazienti sintomatici e tanto maggiore quanto più grave è lo stadio di malattia. Tuttavia la causa di morte è raramente il risultato della malattia degli arti inferiori: circa il 55-60% dei pazienti muore per complicanze correlate a coronaropatia, il 10% per stroke ed un 25% muore per cause non cardiovascolari.
L’arteriopatia periferica cronica costituisce quindi un predittore molto attendibile di aterosclerosi diffusa ad altri territori vascolari (coronarie, carotidi ed aorta addominale).
Nonostante l’alta prevalenza della arteriopatia periferica nella popolazione generale e la sua forte associazione con morbilità e mortalità cardiovascolare, questa patologia è sotto-diagnosticata e sotto-trattata se si considera che secondo dati dell’AHA (American Heart Association): la arteriopatia periferica colpisce circa 10 milioni di persone nei soli USA; meno del 50% dei soggetti è sintomatico (circa 5 milioni); tra questi la diagnosi di arteriopatia periferica è posta in circa la metà (circa 2,5 milioni); di questi 2,5 milioni di pazienti solo 2 milioni (20% del totale) sono trattati.
I principi di terapia della affezione rispettano questo dualismo: infatti, accanto a farmaci vasoattivi e emoreologici (in grado di migliorare la portata ematica nelle zone ischemiche), è usuale la somministrazione di antitrombotici (quali anticoagulanti orali o antiaggreganti piastrinici), nell’ipotesi che questi agenti rallentino la progressione della malattia aterosclerotica o ne riducano gli accidenti acuti su base trombotica.
Gli studi sulla fisiopatologia dell’insufficienza arteriosa hanno però portato alla ribalta un altro “primo attore” nel determinismo del danno su base ischemica rappresentato dalla componente leucocitaria.
In condizioni fisiologiche la regolazione ottimale del microcircolo – un sistema integrato costituito da arteriole, capillari e venule post-capillari – è legata all’interazione esistente tra la parete vasale e il suo contenuto.
Mentre da una parte l’endotelio controlla il tono arteriolare attraverso la produzione di sostanze quali l’Endothelium Derived Relaxing Factor (EDRF) e la prostaciclina (PGI2), e le cellule muscolari lisce impediscono l’aggregazione cellulare e la trombosi attraverso la degradazione di ATP, ADP, 5-HT (Serotonina) e trombina, dall’altra gli elementi cellulari circolanti, soprattutto leucociti e piastrine, garantiscono la fluidità del flusso ematico ostacolando di fatto la tendenza alla adesione ed alla secrezione di sostanze vasoattive. Il turbamento di questo delicato equilibrio, come si ha in caso di ridotta perfusione, determina una risposta vasocostrittiva pre-capillare soprattutto per la riduzione del rapporto tra sostanze vasodilatatrici e sostanze vasocostrittrici, con conseguente prevalenza della produzione di Endothelium Derived Constricting Factor (EDCF) ed ispessimento della parete arteriolare per liberazione di Endothelium Derived Growth Factor (EDGF) e conseguente proliferazione delle cellule muscolari lisce parietali. In condizioni di ridotta perfusione la vasocostrizione può inoltre essere potenziata dalla liberazione eritrocitaria di ADP e dal rilascio piastrinico di TXA2 (Trombossano A2) e 5-HT.
A questa serie di eventi verrebbe ad aggiungersi ancora uno stato trombofilico, indotto soprattutto dalla liberazione piastrinica di PAF (Platelet Activating Factor), PAI (Plasminogen Activator Inibitor) e PGDF (Platelet-derived growth factor ) e dalla produzione di trombina.
In questi ultimi anni l’attenzione di molti ricercatori è stata però catalizzata dal comportamento dei leucociti, potendo essi svolgere un ruolo importante nell’induzione dell’ischemia periferica, non solo a carico degli arti inferiori, ma anche degli altri distretti vascolari quali quello coronarico e quello cerebrale.
Tali elementi cellulari, oltre a svolgere un ruolo fondamentale nella trombogenesi, sarebbero capaci altresì di aggravare lo stato ischemico distrettuale, attraverso vari meccanismi, quali la micro-occlusione capillare (“plugging”), la loro adesione alle pareti e la secrezione di sostanze vasoattive.
Dr.ssa Federica Rondoni